13 October 2016

Tra hippies, hakers, e appassionati di tecnologie comunitarie… Come nacque la rivoluzione del personal computer

Oggi tutti noi usiamo computer portatili, cellulari, smart phone, i pad… Forse questo articolo lo stai leggendo su uno di questi dispositivi. Pochi però conoscono come nacque questa rivoluzionaria tecnologia, quale fu l’ambiente che la generò, chi furono i protagonisti.
Quello che accadde allora va visto sotto tre aspetti: quello dei protagonisti, quello della dinamica, e quello della forma sociale.

I protagonisti.
I pionieri della nuova tecnologia, coloro che ci avevano creduto fin dall’inizio, quelli che l’avevano inventata e alimentata quando nessuno ci avrebbe scommesso nemmeno un centesimo si collocavano tutti al fuori dei grandi apparati. Erano innovatori “dal basso” ma anche dall’esterno, per non dire contro. Provenivano dai movimenti di rivolta dalle università degli anni sessanta, ne avevano respirato l’aria, ne conservavano il radicalismo e l’odio anti burocratico nonché lo stesso moralismo.
Lee Felsestein, quello che viene considerato uno dei padri del personal computer era nato nel ’45, aveva partecipato alle agitazioni studentesche del ‘64-‘65, nel ‘68 è redattore del giornale underground radicale “Berkeley Barb”. Nel ‘73 fonda il “Community Memory” una rete di attivisti che si proponeva di portare il computer nelle strade per farne uno strumento di relazione tra la gente.
Con l’aiuto di un capellone  geniale dello Xerox Parc di Palo Alto che aveva scritto il software di Efrem Lipkin una straordinaria figura di genio informatico, avevano collegato un obsoleto enorme calcolatore che richiedeva 23 tonnellate solo per l’impianto di raffreddamento, con una telescrivente Model 33, chiusa in una scatola di cartone per proteggerla dai rovesciamenti di caffè e dalla cenere di marijuana. Il tutto era stato piazzato nel negozio di dischi Leopold situato nella zona più frequentata dagli sballati di Berkeley dove la gente lo utilizzò per affidare messaggi, fissare appuntamenti, offrire oggetti in baratto, scrivere poesie e proclami.
Da lì nacque l’idea base del Sol terminal computer, dalla ossessione di Felsestein di dar vita a un “terminale intelligente schierato dalla parte del popolo”. Non molto diverso da Felsestein era Bob Marsh, baffuto ometto alla Pancho Villa con una lunga capigliatura nera, una passione smodata per l’elettronica, e il sogno di costruire una macchina che scrivesse su video. Incontrerà Felsestein tramite il terminale di Leopold e insieme costruirono il Sol.

Lo stesso Steve Wozniak, l’inventore del più democratico di tutti i computer, il mitico Apple II poi evoluto in Macintosh apparteneva alla medesima “antropologia”. Non solo per l’aspetto, capelli lunghi e barba, jeans e magliette mai della sua taglia. Condivideva lo stesso gusto per la trasgressione, in molti lo ricordano nei colleges di Berkeley impegnato a spacciare le vietatissime blue box per telefonare gratis, insieme all’amico e futuro socio Steve Jobs.
Stessa insofferenza per le grandi strutture centralizzate e burocratizzate. Stessa rete di amici, come quel John Draper che all’inizio degli anni settanta aveva scoperto che soffiando nel fischietto offerto in omaggio nelle scatole di corn flave si otteneva l’esatta frequenza di 2600 hertz per connettersi gratuitamente alle linee telefoniche interurbane.
O Dan Sokol capellone biondo con straordinario talento a scovare chip utili a poco prezzo, o lo stesso Steve Jobs che avendo lavorato alla raccolta di mele e appassionato dei Beatles gli suggerì il nome Apple.
Quello che li univa era il carattere “non strumentale” dell’agire, il suo essere apparentemente privo di uno scopo inscrivibile nella economia formale perché la gratificazione non stava in una qualche remunerazione monetaria, quanto nel piacere dell’agire,  nella sfida che comportava mettere in pratica le proprie idee, nel valore relazionale della propria creazione, nei legami sociali che si sarebbero potuti produrre.

La dinamica.
La sofisticata tecnologia che ha cambiato il nostro modo di vivere e di produrre è nata prima che se ne potesse immaginare un uso possibile, fu generata dall’ossessione tecnologica di alcuni hobbisti che ne ignoravano ogni possibile destinazione produttiva, inseguendo la propria gratuita e smisurata passione.
Nessun manager di grandi corporation avrebbe mai potuto intercettare un simile vettore innovativo, tanto lontano questo si muoveva dai loro conti profitti e perdite, dalle logiche di mercato e men che meno poteva essere immaginato da nessun funzionario di qualche struttura burocratica di tipo socialista.

Quelle che venivano mobilitate erano risorse immateriali, invisibili e non valutabili secondo le logiche  economiche tradizionali, che circolavano dentro un processo collettivo di elaborazione spontaneamente organizzato fuori dai circuiti codificati dell’appropriazione economica, tant’è che quando Bill Gates simile ai suoi coetanei ma evidentemente meno solidale e più venale di loro, scrisse un software “destinato esclusivamente alla vendita” in molti cominciarono a copiarlo e spacciarlo gratuitamente nei computer club della West Coast con l’unico impegno per chi lo riceveva di riprodurlo e di offrirlo gratis agli amici.

La forma sociale.
Ed è questo altro aspetto significativo della rivoluzione micro elettronica degli anni settanta, la sua forma sociale. Il termine che ricorre più frequentemente in questa rete di pionieri è “Comunità”: Community Memory si chiamava il gruppo Felsestein. Community Communication era il nome del periodico che fin dal ’75 si era impegnato nell’idea di diffondere i computer domestici “ creati e usati dalla gente nella vita di tutti i giorni in quanto membri di una comunità” o l’”Homebrew computer club” il club dei computer “fatto in casa” animato da Fred Moore.

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