Oggi tutti noi usiamo computer portatili, cellulari, smart
phone, i pad… Forse questo articolo lo stai leggendo su uno di questi
dispositivi. Pochi però conoscono come nacque questa rivoluzionaria tecnologia,
quale fu l’ambiente che la generò, chi furono i protagonisti.
Quello che accadde allora va visto sotto tre aspetti: quello
dei protagonisti, quello della dinamica, e quello della forma sociale.
I protagonisti.
I pionieri della nuova tecnologia, coloro che ci avevano
creduto fin dall’inizio, quelli che l’avevano inventata e alimentata quando
nessuno ci avrebbe scommesso nemmeno un centesimo si collocavano tutti al fuori
dei grandi apparati. Erano innovatori “dal basso” ma anche dall’esterno, per
non dire contro. Provenivano dai movimenti di rivolta dalle università degli
anni sessanta, ne avevano respirato l’aria, ne conservavano il radicalismo e
l’odio anti burocratico nonché lo stesso moralismo.
Lee Felsestein, quello che viene considerato uno dei padri
del personal computer era nato nel ’45, aveva partecipato alle agitazioni
studentesche del ‘64-‘65, nel ‘68 è redattore del giornale underground radicale
“Berkeley Barb”. Nel ‘73 fonda il “Community Memory” una rete di attivisti che
si proponeva di portare il computer nelle strade per farne uno strumento di
relazione tra la gente.
Con l’aiuto di un capellone
geniale dello Xerox Parc di Palo Alto che aveva scritto il software di
Efrem Lipkin una straordinaria figura di genio informatico, avevano collegato
un obsoleto enorme calcolatore che richiedeva 23 tonnellate solo per l’impianto
di raffreddamento, con una telescrivente Model 33, chiusa in una scatola di
cartone per proteggerla dai rovesciamenti di caffè e dalla cenere di marijuana.
Il tutto era stato piazzato nel negozio di dischi Leopold situato nella zona
più frequentata dagli sballati di Berkeley dove la gente lo utilizzò per
affidare messaggi, fissare appuntamenti, offrire oggetti in baratto, scrivere
poesie e proclami.
Da lì nacque l’idea base del Sol terminal computer, dalla
ossessione di Felsestein di dar vita a un “terminale intelligente schierato
dalla parte del popolo”. Non molto diverso da Felsestein era Bob Marsh, baffuto
ometto alla Pancho Villa con una lunga capigliatura nera, una passione smodata
per l’elettronica, e il sogno di costruire una macchina che scrivesse su video.
Incontrerà Felsestein tramite il terminale di Leopold e insieme costruirono il
Sol.
Lo stesso Steve Wozniak, l’inventore del più democratico di
tutti i computer, il mitico Apple II poi evoluto in Macintosh apparteneva alla
medesima “antropologia”. Non solo per l’aspetto, capelli lunghi e barba, jeans
e magliette mai della sua taglia. Condivideva lo stesso gusto per la
trasgressione, in molti lo ricordano nei colleges di Berkeley impegnato a
spacciare le vietatissime blue box per telefonare gratis, insieme all’amico e
futuro socio Steve Jobs.
Stessa insofferenza per le grandi strutture centralizzate e
burocratizzate. Stessa rete di amici, come quel John Draper che all’inizio
degli anni settanta aveva scoperto che soffiando nel fischietto offerto in
omaggio nelle scatole di corn flave si otteneva l’esatta frequenza di 2600
hertz per connettersi gratuitamente alle linee telefoniche interurbane.
O Dan Sokol capellone biondo con straordinario talento a
scovare chip utili a poco prezzo, o lo stesso Steve Jobs che avendo lavorato
alla raccolta di mele e appassionato dei Beatles gli suggerì il nome Apple.
Quello che li univa era il carattere “non strumentale” dell’agire,
il suo essere apparentemente privo di uno scopo inscrivibile nella economia
formale perché la gratificazione non stava in una qualche remunerazione
monetaria, quanto nel piacere dell’agire,
nella sfida che comportava mettere in pratica le proprie idee, nel
valore relazionale della propria creazione, nei legami sociali che si sarebbero
potuti produrre.
La dinamica.
La sofisticata tecnologia che ha cambiato il nostro modo di
vivere e di produrre è nata prima che se ne potesse immaginare un uso
possibile, fu generata dall’ossessione tecnologica di alcuni hobbisti che ne
ignoravano ogni possibile destinazione produttiva, inseguendo la propria
gratuita e smisurata passione.
Nessun manager di grandi corporation avrebbe mai potuto
intercettare un simile vettore innovativo, tanto lontano questo si muoveva dai
loro conti profitti e perdite, dalle logiche di mercato e men che meno poteva
essere immaginato da nessun funzionario di qualche struttura burocratica di
tipo socialista.
Quelle che venivano mobilitate erano risorse immateriali,
invisibili e non valutabili secondo le logiche
economiche tradizionali, che circolavano dentro un processo collettivo
di elaborazione spontaneamente organizzato fuori dai circuiti codificati dell’appropriazione
economica, tant’è che quando Bill Gates simile ai suoi coetanei ma
evidentemente meno solidale e più venale di loro, scrisse un software “destinato
esclusivamente alla vendita” in molti cominciarono a copiarlo e spacciarlo
gratuitamente nei computer club della West Coast con l’unico impegno per chi lo
riceveva di riprodurlo e di offrirlo gratis agli amici.
La forma sociale.
Ed è questo altro aspetto significativo della rivoluzione
micro elettronica degli anni settanta, la sua forma sociale. Il termine che ricorre
più frequentemente in questa rete di pionieri è “Comunità”: Community Memory si
chiamava il gruppo Felsestein. Community Communication era il nome del
periodico che fin dal ’75 si era impegnato nell’idea di diffondere i computer
domestici “ creati e usati dalla gente nella vita di tutti i giorni in quanto
membri di una comunità” o l’”Homebrew computer club” il club dei computer “fatto
in casa” animato da Fred Moore.
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